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Il mito dell’Oceania
Quando uno degli Apostoli si è accasciato su se stesso sotto gli occhi attoniti dei turisti in visita al Port Campbell National Park, nei pressi di Melbourne, all’incirca venti milioni di anni si sono sgretolati assieme alla roccia calcarea di quel gigante di quasi cinquanta metri. Era il 2005 e i Dodici Apostoli, la scogliera frastagliata che s’innalza dall’oceano Antartico e fa da cornice alla costa dello stato di Victoria, uno dei profili che più caratterizza l’Australia nel mondo, ridisegnava se stessa per l’ennesima volta, com’è d’altronde nella natura della sua conformazione geologica. Era già successo nel 1990, quando il London Bridge, un ponte naturale a due arcate sempre nella stessa zona, ha ceduto dalla parte più prossima alla riva, lasciando due persone praticamente impossibilitate a ripercorrere all’indietro il sentiero che le aveva portate lassù. Da allora lo chiamano London Arch e si trova anch’esso lungo la spettacolare strada panoramica Great Ocean Road, assieme agli Apostoli Razorback, Island Archway, Thunder Cave, Bakers Oven Rock, Sentinel Rocks e The Grotto, sopravvissuti a quella stessa erosione che ha contribuito a formarli. Gli Apostoli non si sono sempre chiamati così: fino al 1922, la scogliera era conosciuta come The Sow and the Piglets, la scrofa e i maialini, dove The Sow era l’isola di Muttonbird, che si trova all’imbocco della gola di Loch Ard Gorge, e i piglets gli spuntoni di roccia ancora intatti. Non conosciamo il loro numero preciso: le cronache locali riportano fossero molti di più di quelli che vediamo oggi, sebbene di più piccole dimensioni. Su una mappa risalente al 1846 si contano infatti più formazioni rocciose delle otto rimaste in piedi e pare che i primi navigatori europei che se le trovarono di fronte, ne avessero contate tante quante i discepoli di Gesù Cristo, e che così perciò le avessero ribattezzate. È dai primi anni Venti, però, che i piglets divennero ufficialmente gli Apostoli, in virtù della maggiore potenza evocativa del riferimento biblico, che certo rendeva giustizia alla grandiosità di quei palazzi di pietra, tanto mastodontici quanto in realtà fragili, che accompagnavano quella che diventerà la Ocean Road, 243 km tra le città di Torquay e Allansford. Così, quando si è diffusa la notizia del ritrovamento di cinque Apostoli ancora intatti, questa volta sommersi e incredibilmente risparmiati dal logorio delle onde, la formazione è tornata al completo, con addirittura qualche aggiunta rispetto agli apostoli originari. Il nuovo ritrovamento ha dello straordinario, come confermano i ricercatori dell’Università di Melbourne. «Quando li abbiamo visti, è stato uno shock – ha dichiarato Rihannon Bezore, del dipartimento di Geografia dell’ateneo della città – sono strutture molto particolari, vere e proprie cataste di materiale, che è difficile pensare non erose in profondità. Il fatto che si siano conservate è decisamente un evento unico». Come hanno spiegato gli studiosi, la ragione della loro salvezza è dovuta a un improvviso innalzamento delle acque, avvenuto all’incirca sessantamila anni fa, dopo un “massimo glaciale”. «Gli oceani s’innalzavano a ritmi due volte superiori rispetto a quelli attuali – continua Bezore – così velocemente che le onde marine non hanno avuto il tempo di eroderli del tutto e farli collassare». Ecco perché sono arrivati fino a noi: cinque “piccole” torri che si trovano a circa settanta metri di profondità, almeno sei km al largo da uno dei siti turistici più famosi del Paese. E se anche non sappiamo con esattezza quante fossero in origine le rocce che spuntavano dall’acqua, da quando abbiamo iniziato a osservarle sappiamo però che cambiano continuamente e, all’amara consapevolezza che i crolli improvvisi sono stadi necessari di questa tipologia di monumenti naturali, si aggiunge ora lo stupore per la recente scoperta, che ci consegna ancora una volta l’immagine di un ecosistema in movimento, lentissimo e repentino allo stesso tempo. D’altronde, quella stessa fascinazione per il remoto, lo sterminato, l’inesplorato, è ciò che spinge ogni anno milioni di turisti alla scoperta del continente australiano. È singolare pensare come l’Australia sia uno dei paesi più urbanizzati al mondo, ma con una concentrazione di insediamenti umani localizzata per lo più sulla costa sud orientale, mentre per una superficie pari all’incirca a sei milioni e mezzo di km altro non ci sia che l’enigmatico deserto rosso, detto the outback o the bush. Uno spazio enorme, indefinito e onnicomprensivo, che rappresenta un archetipo per gli stessi australiani, i quali (così vuole il luogo comune) non saprebbero, né vorrebbero, indicare dove inizia e dove finisce. Basti pensare alla cinematografia che ha l’outback come sfondo e protagonista, dalla fortunata saga di Mad Max (regia di George Miller, il primo episodio è del 1979, l’ultimo del 2015) al mitico Crocodile Dundee (di Peter Faiman, 1986), passando per pellicole più intimiste e talvolta drammatiche, come Priscilla, la regina del deserto (di Stephen Elliott, 1994) e La generazione rubata (di Philipp Noyce, 2002). Il bush e i suoi confini labili, la moltitudine di parchi naturali, la ricchezza strabiliante della flora e della fauna e la profondità delle sue radici aborigene fanno dell’Oceania una sorta di luogo mitologico sulla Terra, unico nel suo genere, dove le rocce sfidano il mare e arrivano a innalzarsi in tempi lunghissimi, per poi scomparire in meno di un minuto. Ma niente paura: sott’acqua c’è tutto un altro continente da esplorare.
Testo – Silvia Schirinzi