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Scrivere di vini
Passione e competenza. Sono queste le chiavi del successo di Kerin O’Keefe, tra le firme più autorevoli e influenti del giornalismo enologico internazionale. Nata vicino a Boston, nello stato del Massachusetts, negli anni Novanta Kerin O’Keefe si è trasferita nel nostro Paese e ha scelto la produzione vinicola italiana come principale focus della sua attività. È Italian editor per la rivista Wine Enthusiast dal 2013, nonché autrice di numerosi libri di successo come Franco Biondi Santi: il Gentiluomo del Brunello, ma anche Brunello di Montalcino: understanding and appreciating one of Italy’s Greatest Wines e, ancora, Barolo e Barbaresco: the King and Queen of Italian wine. L’abbiamo intervistata in esclusiva chiedendole di raccontarci le tappe più importanti della sua carriera e di darci un commento sull’export e sui trend di consumo di vino attuali.
A quando risale il suo primo incontro con il vino? Quando ha iniziato ad appassionarsi di enologia?
Subito dopo il college, quando ho incontrato il mio futuro marito Paolo Tenti. Paolo è di Varese, e all’epoca era già un esperto di vini italiani. Nel 1989 abbiamo trascorso l’estate in Toscana e poi abbiamo girato le Langhe e la Valtellina. Sono stati questi primi viaggi a farmi innamorare dell’enologia italiana. Dopo il mio trasferimento dall’America, io e Paolo abbiamo iniziato a viaggiare visitando le principali regioni viticole dello Stivale. Rimasi semplicemente sbalordita dalla varietà di vini prodotti a partire da uve autoctone e dalla ricchezza dei piatti tipici della cucina italiana. Tra i motivi che mi hanno spinto a scrivere includo anche la delusione per il fatto che i miei vini italiani preferiti non erano quasi mai recensiti dalla stampa degli Stati Uniti e del Regno Unito, e comparivano di rado persino sulle guide italiane. Ho pensato che i consumatori si stavano davvero perdendo delle realtà importanti e che tanti produttori venivano ingiustamente trascurati.
Sono sempre stata una grande fan degli autoctoni. Oggi tutti parlano e scrivono degli eleganti vini italiani realizzati con uve locali. Ma nel 2002 ero una voce solitaria: all’epoca la maggior parte dei critici enologici andava in estasi per i vini italiani prodotti da uve internazionali e affinati in barrique, mentre ignorava quasi completamente o addirittura criticava i vini tradizionali e i loro produttori.
Dopo la laurea in letteratura inglese alla University of Massachusetts Amherst, ha deciso di intraprendere la carriera di giornalista. Può raccontarci quali sono le principali testate con cui ha collaborato inizialmente?
I primi articoli sono apparsi nel 2002 su M Magazine del gruppo Milano Finanza. Nello stesso anno ho cominciato a scrivere anche per Decanter.com, subito dopo sono passata a occuparmi della rivista, di cui sono stata una dei principali corrispondenti italiani fino al 2013, quando ho iniziato a lavorare per Wine Enthusiast come responsabile unico per l’area italiana. Al 2003 risale invece la collaborazione con US Wine News, mentre nel 2004 ho avviato quella con The World of Fine Wine e i miei pezzi sono usciti su molte altre pubblicazioni sia online sia cartacee.
Nella sua carriera non ci sono solo le pubblicazioni sui giornali e, infatti, nel 2004 è uscito il suo primo libro. Lo ha dedicato al grande Franco Biondi Santi, definendolo “Il Gentiluomo del Brunello”. Può raccontarci la genesi di quest’opera?
Nel 2001, dopo aver provato la Riserva di Franco Biondi Santi 1981, decisi che dovevo assolutamente incontrare questo grande produttore. Lo intervistai più volte per telefono prima di andare finalmente a trovarlo nella sua tenuta, nel 2002. Si rivelò un uomo dalla grande capacità comunicativa. Quel pomeriggio imparai moltissimo sulla sua famiglia, sul Brunello, ma acquisii anche una nuova visione del mondo del vino italiano nel suo complesso.
In quel periodo Veronelli Editore aveva appena avviato una collana editoriale, I Semi, dedicata ai produttori italiani più influenti. Sono andata a Bergamo e ho presentato il mio caso al grande Luigi Veronelli in persona, spiegandogli come Franco Biondi Santi costituisse un soggetto ideale grazie alla sua assoluta fede nel Sangiovese in purezza, nelle condizioni uniche dei migliori vigneti di Montalcino e nell’importanza di utilizzare tecniche di vinificazione non invasive né sostanze chimiche in vigna. Veronelli fu d’accordo con me e così trascorsi sei mesi a Montalcino per scrivere il libro.
Dopo questa prima importante pubblicazione, la sua ricerca sul Brunello continuò tanto che nel 2008 il Consorzio di tutela del Brunello le conferì un premio per il suo articolo “Brunello de-constructed”. Qual è il senso di questa espressione?
Montalcino è una zona estremamente complessa dal punto di vista vinicolo, nonostante si tratti di un unico Comune. Ho pensato di suddividere il territorio in diverse aree, spiegando ai lettori i pro e i contro di ciascuna, sempre sottolineando il ruolo cruciale del produttore.
Si arriva così al 2012, l’anno dell’uscita di Brunello di Montalcino. Understanding and appreciating one of Italy’s greatest wines che è subito diventato uno dei libri più importanti e apprezzati sull’argomento. Cosa l’ha spinta a scrivere quest’opera?
Mi ha sempre colpito molto la disparità fra l’editoria enologica francese e quella italiana. In Francia ci sono decine di libri su tutti i grandi vini d’Oltralpe, mentre i volumi italiani hanno un carattere piuttosto generico e affrontano la viticoltura a livello nazionale o quasi. Ho voluto dare ai più importanti vini italiani il rispetto e l’attenzione che ai loro omologhi francesi sono già stati accordati da molti anni, dedicando un intero libro a una singola denominazione. Ho potuto così scavare in profondità i vari aspetti della storia, la zona di produzione, l’uva e le persone dietro ai vini. Da subito il desiderio fu quello di scrivere dei volumi su Brunello, Barolo e Barbaresco, le tre grandi denominazioni italiane. Possedevo già un sacco di materiale sul Brunello e decisi di cominciare da lì. Il passo successivo, come ha accennato lei stessa, è stato il libro Barolo and Barbaresco – The king and queen of Italian wine.
Cosa l’ha colpita di più durante la stesura?
Aver contribuito a sfatare il vecchio mito sul padre del Barolo, così come lo conosciamo oggi: un vino rosso secco in contrapposizione alla sua originale versione dolce. Il mito comune attribuisce la paternità del “Re dei vini” a un francese, Louis Oudart (amico di Juliette Colbert de Maulévrier, nota in Italia come Giulia Falletti, la marchesa di Barolo), arrivato dalla Francia a insegnare ai produttori delle Langhe come vinificarlo. Personalmente non ho mai pensato che la verità fosse questa.
Alcuni dei produttori che ho intervistato mi parlarono del generale italiano Paolo Francesco Staglieno, definendolo un pioniere della produzione dei primi Barolo. Scovai la sua opera più famosa, un manuale sulla vinificazione sorprendentemente all’avanguardia per quei tempi. Leggendolo mi apparve evidente come Staglieno fosse ossessionato dal vinificare il Barolo in versione secca. Anche dagli scritti della storica piemontese Giusi Mainardi risulta chiaro che Staglieno vinificò il Nebbiolo secco prima che Oudart mettesse piede in Piemonte. Ho studiato attentamente anche alcuni documenti storici, tra cui Le lettere del Fattore di Cavour e tutto indica Staglieno come il padre del Barolo dei tempi moderni. Successivamente ho scoperto un libro non molto conosciuto ma molto esplicativo, Louis Oudart e i vini nobile del piemonte di Anna Riccardi Candiani, pubblicato da Slow Food Editore nel 2011, che mostra che non c'è nessuna connessione tra Oudart e la Marchesa di Barolo o l'arrivo del Barolo secco. Questo mi ha aiutato a confermare le mie conclusioni sul fatto che il generale Francesco Staglieno fosse il vero padre del Barolo come lo conosciamo oggi.
Ora sta lavorando ad altri volumi? C’è già in progetto un nuovo libro di cui può darci qualche anticipazione?
Tra il 2004 e il 2014 ho scritto quattro libri (tra cui la versione inglese di Franco Biondi Santi. Il gentiluomo del Brunello) quindi al momento mi sto concentrando sul mio lavoro di Italian Editor per Wine Enthusiast, una delle posizioni più gratificanti che io abbia mai ricoperto, che mi occupa a tempo pieno.
Il suo lavoro le permette di avere una visione piuttosto completa del mondo del vino italiano. Quali sono secondo lei i principali trend di consumo vinicolo nel nostro Paese?
La viticoltura biologica e i metodi di coltivazione naturali, sono ormai una grande realtà in Italia, e a ragion veduta. Non soltanto l’uso intensivo di prodotti chimici tra il 1950 e il 1980 ha sterilizzato il suolo, ma oggi i consumatori sono molto più consapevoli e diffidenti rispetto ai prodotti di sintesi. Il numero degli appassionati che cerca etichette prodotte senza ricorrere a sostanze chimiche industriali è in continua crescita. Molti amanti del vino stanno anche cercando dei vini eleganti e bilanciati, in contrapposizione a vini più concentrati e forti.
E pensando al mercato americano in particolare?
I consumatori americani vogliono vini capaci di esprimere il territorio di provenienza, e oggi molti giovani – penso in particolare ai cosiddetti Millennials – sono alla ricerca di vini unici, particolari, molto diversi dagli Chardonnay e dai Merlot apprezzati dai loro genitori. Tutto questo costituisce una grande opportunità per i vini italiani da uve autoctoni, vini che non possono essere ricreati in altre parti del mondo.
Si ripete spesso, però, che i produttori italiani abbiano difficoltà a “fare sistema”. Quali sono dal suo punto di vista gli aspetti più importanti in termini di comunicazione per risultare vincenti?
È vero, è raro trovare un "fare sistema" quando si tratta del marketing dei vini italiani. Credo che i compratori siano influenzati dalle strategie di marketing, ma a parte le promozioni e il mercato, le storie che stanno dietro ai vini sono estrememnte interessanti. Chi legge le riviste enologiche apprezza la sincerità ed è sospettoso rispetto a possibili conflitti di interesse da parte del giornalista. I lettori, poi, preferiscono che il vino sia raccontato con uno stile divertente, ma istruttivo e detestano gli snobismi. Apprezzano soprattutto gli articoli scritti da specialisti. Credo che il tempo dei giornalisti che scrivono di tutti i vini del mondo – con la pretesa di essere esperti in tutto, da Bordeaux a Cile, dall’Argentina all’Italia – sia ormai finito da un pezzo.
Focalizziamo ora l’attenzione su Santa Margherita. Quali pensa che siano gli aspetti e i prodotti di maggior successo di questo Gruppo?
Santa Margherita è sinonimo di Pinot Grigio. Non solo Santa Margherita ha introdotto il Pinot Grigio sulle carte vinicole quando lo ha lanciato negli Stati Uniti nel 1979 – aprendo la strada a quello che sarebbe diventato un fenomeno internazionale – ma si è concentrata sul concetto di qualità made in Italy e ha trasformato il vino italiano in un prodotto di lusso.
Ultimamente la cultura foodies e la comunità dei wine lovers è cresciuta moltissimo. Qual è la sua posizione in merito?
Dopo anni trascorsi a bere vino come fosse un cocktail – prima o dopo il pasto, ma mai a tavola – oggi gli americani hanno finalmente cominciato ad abbinare il vino al cibo. La popolarità dei ristoranti italiani e della cucina italiana hanno avuto un ruolo importantissimo in questo senso. E tra tutti i vini del mondo, quelli italiani sono assolutamente i migliori da abbinare, grazie alla naturale freschezza e versatilità.
E allora un’ultima domanda per conoscere i suoi gusti personali. Quali sono secondo lei le accoppiate cibo-vino perfette?
Pizzoccheri e Valtellina Sassella, Sauvignon Bianco e pasta al pesto, e un dosaggio zero metodo classico con la pizza.
Intervista a Kerin O'Keefe
Testo – Jessica Bordoni
Foto – Paolo Tenti