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Studio Zaven
Fondato a Venezia nel 2006 da Enrica Cavarzan e Marco Zavagno, Zaven è una realtà multidisciplinare che interseca design, comunicazione e arte, creando progetti allo stesso tempo creativi e funzionali, dall’identità unica e con una forte radice artigianale, risultato della continua contaminazione tra logica e istinto, regole e caos. Enrica ama i taglieri e i gusti classici, Marco le caraffe e il taglio chirurgico delle verdure, e hanno dedicato uno dei loro progetti più belli alla forma dell’uovo. I lavori dello studio Zaven sono stati esposti alla Triennale di Milano e in gallerie d’arte a Londra, Parigi e Istanbul, ma il vero segreto è che tutte le loro idee nascono in cucina, al centro della casa. Nonostante la giovane età, Enrica e Marco collaborano con istituzioni italiane e internazionali, nell’arte come nell’industria, e alla loro creatività si sono affidati brand come Nike, Mercedes Benz, Red Bull, Telecom Italia e Tod’s, tra gli altri.
Da cosa è nata l’idea di creare Studio Zaven?
EC: Ci siamo conosciuti studiando entrambi allo IUAV di Venezia, ma abbiamo intrapreso percorsi molto diversi: Marco con Fabrica, Benetton e poi la Spagna e io con l’arte e la grafica per istituzioni. A un certo punto però ci siamo innamorati e abbiamo iniziato a convivere, è nata così la nostra collaborazione. Ognuno aveva i propri lavori, ma visto che per forza di cose ci influenzavamo e avevamo un dialogo continuo abbiamo pensato: perché non unire energie, forze e competenze?
Molti designer finiscono per vivere nei loro studi o per trasformare le loro case in laboratori, organizzando feste e cene in mezzo ai progetti: è così anche per voi?
MZ: No, noi abbiamo sempre cercato di separare le due cose. Abbiamo cercato uno studio indipendente dal luogo dove viviamo proprio per isolare il lavoro dalla vita famigliare. Sentivamo la necessità di avere due spazi diversi anche per evitare certi contrasti amorevoli e imporre dei limiti. I figli hanno dettato questa necessità: prima che arrivassero potevamo anche restare a dormire in studio, ora è diverso. Anche se in realtà è praticamente impossibile separare realmente questi due ambiti se si lavora insieme…
EC: Alla fine tutti i nostri progetti nascono in cucina, dopo che abbiamo messo a letto i bambini e sparecchiato. Infatti la nostra nuova casa è tutta disegnata attorno alla cucina, che per noi è un ambiente di ritrovo fondamentale. È uno spazio dove ci ricarichiamo e il lavoro diventa semplicemente piacere.
Qual è secondo voi, in quanto designer, l’oggetto simbolo della convivialità?
EC: Per me il simbolo perfetto della convivialità è il tagliere! Alle cene mettiamo sempre tutto sui taglieri per condividerlo, al centro della tavola.
MZ: Sono d’accordo, e aggiungerei anche la brocca: è un oggetto a cui siamo molto affezionati e che abbiamo studiato molto. è un po’ l’equivalente del tagliere per quanto riguarda il bere, il contenitore con cui si distribuisce il vino agli altri commensali.
Qual è il vostro vino preferito? Non avete mai pensato di dedicargli un bicchiere?
EC: Io sono per i gusti classici e semplici, ad esempio i Sauvignon. Poi c’è da dire che il vino a Venezia è un elemento democratico, l’ombra va venduta per forza a un euro, anche se il mattino dopo ti fa venire il mal di testa. Ma questo non potrà mai cambiare.
MZ: Se devo essere sincero io preferisco la birra, ma quest’anno per la prima volta abbiamo disegnato per Arc dei bicchieri su larga scala e stiamo aspettando i prototipi. Niente di troppo prezioso, ma per noi è una novità.
Il vino e il cibo sono due elementi diversi eppure legati, uno fluido e l’altro solido, che si prestano a forme e presentazioni diverse: cosa sono per voi e come vedete il loro rapporto?
EC: Io amo la cucina tradizionale e le cose semplici di tutti i giorni, ma quando esco a cena preferisco sperimentare e il provare abbinamenti inaspettati, mi piace vivere il cibo come esperienza e scoperta, sia dal punto di visita visivo e compositivo del piatto che per la sinergia dei gusti che si incontrano. Il cibo in certi ristoranti stellati diventa un vero e proprio progetto, una costruzione. Poi a casa ci piace cucinare insieme, è un momento per noi in cui ci rilassiamo.
Le vostre origini affondano in Veneto, rinomatissima terra di vini. In che modo questo paesaggio ha influenzato il vostro lavoro? Come vi ha insegnato a progettare e a creare il vostro territorio?
EC: Più che il Veneto, è l’Italia tutta ad averci ispirato. Ovviamente in Veneto si trovano artigiani di ogni tipo e grandi eccellenze, oltre a quella del vetro veneziano. Diciamo che qui c’è un ottima logistica e ottimi produttori che fanno prototipi per tutto il mondo, quindi perché proprio noi non dovremmo sfruttarli?
MZ: La produzione artigianale è molto importante ed è quella che ci ha dato più riconoscimenti, ma in realtà abbiamo collaborato tanto anche con mezzi di produzione industriali. Alla fine è il singolo progetto che conta, ma le nostre origini hanno avuto un ruolo fondamentale nella nostra evoluzione di designer.
Il vostro rapporto con l’artigianato è molto forte, tanto che farete parte, con i vasi Pila, di una mostra intitolata The Future is Handmade. Come riuscite a far coesistere passato e futuro?
MZ: A seconda di ogni cliente e del suo sistema di produzione adattiamo la realizzazione dei vari progetti, ma non le idee che ne stanno alla base. Se lavoriamo con una grande azienda americana per forza di cose ci approcciamo a un lavoro diverso rispetto a quello dell’artigiano veneto, eppure cerchiamo di mantenere costantemente attivo il dialogo tra queste due realtà.
EC: La serie Pila unisce in modo particolare queste due dimensioni, perché nasce da una realtà artigianale, ma si adatta al mondo industriale attraverso la creazione di stampi. I primi dieci pezzi però sono stati realizzati da noi. Abbiamo visitato questo artigiano incredibile, Antonio Bonaldi, che lavora al tornio e persegue costantemente la ricerca della perfezione. All’epoca lo stava facendo attraverso la riproduzione dell’uovo. Noi gli abbiamo commissionato dei cilindri perfetti, ma poi abbiamo cercato di imprimergli un movimento, un’aleatorietà, come quando si accumulano dei libri su un tavolo. Cercavamo la follia della perfezione legata al caos.
MZ: Il tornio arriva alla perfezione proprio perché la forma si crea ruotando attorno all’asse ed è sempre liscia e perfetta. Noi vorremmo che la realtà fosse così, ma non lo è mai, c’è sempre una variabile ingestibile. Le nostre forme allora derivano sì dalla perfezione ma cercano la spontaneità. Volevamo tradurre quest’idea nel progetto: forme quasi perfette, sempre diverse, che rappresentano l’ordinario.
Come prendono forma i vostri progetti?
MZ: Ogni progetto ha la sua storia e la sua ideazione, cerchiamo di non fare distinzioni a priori. Le tecniche produttive ti insegnano a pensare in modo diverso e a prendere necessariamente strade diverse a seconda dei limiti di industrializzazione, ma dipende tutto dalla percezione dell’oggetto da parte del fruitore. Gli oggetti veicolano delle emozioni. C’è la possibilità di comprare una caraffa all’Ikea e spendere cinque euro o spenderne cinquanta e avere una caraffa fatta a mano. Spesso gli oggetti non vengono comprati soltanto perché ce n’è bisogno o costano poco, ma perché te ne innamori e nella loro forma vedi un ricordo. Noi tentiamo di lavorare su questa idea della forma, del ricordo, del significato e questo è alla base di tutto. Se si riesce poi a portare su scala industriale il concetto del tailor made, delle cose fatte su misura, tanto meglio. Anche se sono pezzi artigianali inoltre non sono esclusivamente per l’élite, hanno prezzi accessibili a tutti. Poi resta il problema del trovare la forma, il significato che fa sì che l’oggetto faccia venire voglia di essere acquistato.
EC: Il concetto di tailor made caratterizza tutto il nostro studio, non solo per il fatto che ci rivolgiamo a un mercato su misura, ma perché a livello progettuale siamo legatissimi a ogni singolo oggetto. I nostri lavori sono sì molto eterogenei, ma sempre specifici: abitano tutti sotto lo stesso cappello e sono legati dallo stesso filo conduttore.
Venezia è una città con un’identità fortissima e unica. Perché l’avete scelta?
MZ: Io sono di Trieste e Enrica di Castelfranco Veneto. Dovevamo scegliere. La maggior parte dei designer sono a Milano, ma noi abbiamo deciso di restare qui, anche se Venezia è una città complicata. Pur essendo un’isola, grazie alla Biennale e ad altre grandi fondazioni, offre un ampio respiro internazionale, senza perdere la dimensione originaria di paese.
EC: Venezia è bellissima e magica e ha ancora una forte dimensione di quartiere, le sue abitudini fanno parte di una vita a cui non siamo più abituati e che forse non siamo disposti a lasciarci sfuggire.
Se c’è, qual è il progetto a cui siete più affezionati? Magari perché avete fatto particolarmente fatica a realizzarlo?
EC: Uno è sicuramente quello delle caraffe. Continuavamo a pensare a queste brocche, ne abbiamo disegnate almeno ottocento, mille, ma non riuscivamo mai a legare queste due forme, la presa e la caraffa, quella del contenitore e quella del manico. L’idea del servire a quella della bottiglia.
MZ: Alla fine siamo arrivati a ridurre tutto all’essenziale, ovvero attaccare semplicemente un manico a una bottiglia così com’è. Forse è il gesto più banale e scontato quando ci pensi, ma senza disegnare niente di nuovo abbiamo riconosciuto così la forma archetipo della bottiglia attaccandoci un manico, da due forme antiche, esistenti, ne abbiamo creata una nuova.
Intervista a Enrica Cavarzan e Marco Zavagno
Testo Lucia Brandoli Bousquet
Foto Claudia Corrent