Wine Culture
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Racconti di vendemmia
Viaggio nel momento di passaggio tra l’uva e il vino: la vendemmia, dai campi alle cantine. Una pratica che ha radici antichissime e che è stata celebrata dalla letteratura greca e latina, complice il proprio importante valore sociale. La vendemmia rappresenta un momento di raccolta e di condivisione, nel quale si riuniscono comunità al crocevia tra tradizione e innovazione, intuitività e scienza.
La vendemmia è il momento di raccolta dell’uva ed è, allo stesso tempo, «un’occasione nella quale le persone si riuniscono e lavorano fianco a fianco per almeno tre settimane di fila. Si festeggia la fine della stagione, la conclusione di un lavoro insieme». Francesco, occhi sorridenti e mani da vignaiolo, mostra da lontano Campolungo, storico vigneto che si trova a Lamole, nel Comune di Greve in Chianti, provincia di Firenze, al confine con il senese, e nel quale crescono uve Sangiovese che anno dopo anno vengono impiegate per dare vita al Chianti Classico Gran Selezione Vigneto di Campolungo di Lamole di Lamole, casa vitivinicola toscana per la quale lui lavora.
È un giovedì mattina di inizio ottobre: la vendemmia è in corso e, dallo spiazzo lungo la strada che da Greve in Chianti sale a Lamole con curve dolci accompagnate da filari di cipressi, si intravedono trattori e uomini che metodicamente e meticolosamente spogliano i tralci dalle uve. Chi orchestra le operazioni – stretto nei maglioni di lana perché a Lamole la temperatura è sempre un po’ più bassa, trovandosi a 500 metri sul livello del mare, in uno dei punti più alti del Chianti Classico – tiene d’occhio il procedere della raccolta e insieme il cielo: tira vento e le nuvole si muovono veloci in un’alternanza tra ombra e sole che fa presagire un cambio meteorologico che potrebbe mettere a rischio la giornata di domani.
La vendemmia è un momento importante per queste terre. Lo si capisce arrivando a questo paesino arroccato sulle colline di quel Chiantishire che tanto fa impazzire turisti americani e inglesi che a ottobre affollano ristoranti e osterie, degustando fegatini e tartufo, e l’immancabile vino rosso. I filari si sviluppano ordinatamente l’uno accanto all’altro, paralleli: alcuni scendono lungo il fianco della collina, altri sono piantati su terrazzamenti con muretti a secco in macigno del Chianti. È da qui, dalle terrazze che da lontano paiono lame poste l’una sopra all’altra, inizialmente nate in modo naturale a causa dell’erosione della pietra, che deriva il nome di Lamole. Lamelle, appunto.
La pratica della vendemmia ha radici antichissime e una rilevanza sociale che trova spazio nelle opere di poeti e commediografi greci e latini. Bacco e le Baccanti sono solo la punta iconografica dell’iceberg che rappresenta il vino nella letteratura antica e che spazia dal fin troppo sdoganato motto In vino veritas alle indicazioni scientifiche e naturalistiche di Gaio Plinio Secondo, meglio conosciuto come Plinio il Vecchio. Nel suo trattato Naturalis Historiae, scritto nel primo secolo dopo Cristo, non solo analizza le proprietà del territorio in relazione alle coltivazioni della vite e alla qualità del vino (di cui elenca ben 185 varianti) ma celebra anche la supremazia del vino italiano rispetto a quelli stranieri.
L’unicità del territorio, del resto, è una delle caratteristiche che rendono inimitabile il Chianti Classico Lamole di Lamole, Tenuta che conta 173 ettari di cui 57 di vigne: la prima caratteristica identificativa di questi vigneti – oltre al terreno, ricco di galestro, l’altitudine – tra i 400 e i 650 metri – dalla quale dipende l’andamento meso e microclimatico.
A Lamole, da maggio a fine agosto c’è inversione termica, con il calore del fondovalle che risale alla sera verso le quote più elevate, e tra i primi di settembre e il periodo della vendemmia c'è invece escursione termica, con importante differenza fra temperatura diurna e notturna. Il Monte San Michele, poi, protegge questo luogo dai venti troppo freddi rendendolo particolarmente adatto alla coltivazione delle viti.
I tempi della vendemmia si decidono anche sulla base del clima, ovviamente: «In questo processo è fondamentale avere non solo la maturità tecnologica, ma anche la maturità aromatica e fenolica dell’uva», dice Andrea Daldin, enologo di Lamole di Lamole da 22 anni. «L’epoca vendemmiale è decisiva. Per stabilirla nell’antichità si guardava il comportamento degli animali, come caprioli e cinghiali – il termometro più affidabile per stabilire quando l’uva era pronta». Le tecniche messe in campo dall’azienda toscana per valutare quando vendemmiare l’uva, oggi sono molto sofisticate, scientifiche: con il costante monitoraggio dell’andamento aromatico e fenolico. Ma a numeri e proiezioni va unita una buona dose di intuizione per rendere una vendemmia memorabile anche quando potrebbe non esserlo affatto.
«Quella che mi ha stupito positivamente è stata la più difficile,» continua Daldin, «il 2014 è stato un anno incerto dal punto di vista climatico, con nuvole e piogge frequenti: da tutti i viticoltori è ricordata come un’annata drammatica. Noi abbiamo ritardato la vendemmia ai primi di ottobre, godendo di un periodo prolungato di sole: ricordo quelle uve tra le migliori che abbiamo avuto».
Tornando ai giorni nostri, tra i filari si muove veloce un gruppo di persone che raccolgono l’uva con gesti meccanici e conditi di attenzione allo stesso tempo: l’estremità più esterna della mano destra scosta le foglie come farebbe un parrucchiere con i capelli lunghi; le cesoie tagliano il graspo; il grappolo cade in un grosso secchio di plastica rossa; qualche chicco, invece, finisce in bocca: acidulo e dolcissimo allo stesso tempo. Questa è la primissima fase della vendemmia: da protocollo si possono raccogliere al massimo 75 quintali di uva Sangiovese per ettaro coltivato. Nel caso di Lamole di Lamole la raccolta viene realizzata interamente a mano: «La tecnologia ha fatto passi da gigante: oggi esistono macchinari per raccogliere l’uva in grado di dare ottimi risultati,» spiega Andrea Daldin, «ma noi scegliamo di non impiegarli. Non solo non sono adatti al tipo di territorio che abbiamo qui a Lamole, con gli impianti vicini tra loro e il terreno in pendenza, ma anche per il rispetto delle piante. Il fattore umano, infatti, conta molto. Anche nella raccolta dell’uva: le macchine rendono impossibile fare la selezione vendemmiale come la fa una persona».
Il prossimo anno sarà molto importante per Lamole di Lamole: la casa vitivinicola toscana otterrà, a partire dalle uve vendemmiate nel 2017, la certificazione biologica per i propri prodotti. Il coronamento di un lavoro iniziato molto tempo fa: «La coltivazione biologica non è una moda, almeno per noi,» racconta Daldin, «ma una vera e propria filosofia: guardiamo prima il terreno, poi la pianta, perché questa è la diretta conseguenza del primo. Tecnologia e conoscenza scientifica del territorio ci permettono di coltivare un prodotto biologico in modo migliore rispetto al passato, tutto parte dal rispetto del territorio e dalla volontà di produrre in modo sostenibile. Per questo, all’investimento in macchinari e in tecnologia va accompagnato quello in professionisti e personale di alto livello, che hanno sostituito, nel tempo, gli studenti universitari un tempo naturali candidati a partecipare alla vendemmia».
A Campolungo parte del “capitale umano” di Lamole di Lamole coglie metodicamente l’uva. Marco da Figline Val d’Arno, 55 anni, cappello in testa per proteggersi dal sole e camicia a righe sottili, è un esperto: «Vendemmio da quando avevo 10 anni, quindi ormai saranno 45,» dice, senza smettere di lavorare, «e secondo me questa è proprio una buona annata». Una volta raccolta, l’uva viene caricata sul trattore che trasporta casse che possono contenerne fino a due quintali e mezzo l’una. Di strada ne fa poca prima di arrivare alla cantina, dove verrà trasformata in vino: tutti i vigneti si trovano a poca distanza dall’azienda, a una manciata di minuti di macchina.
Il cancello grigio scorre lento e l’uva fa il suo ingresso sotto gli occhi divertiti di una famiglia di americani che si prepara a guardare e degustare. Il bello della vendemmia, del resto, avviene in questa fase.
Quello che un tempo si faceva in grossi secchi di legno, a piedi nudi, oggi è (giustamente) meccanizzato e iper-controllato dagli occhi attenti del personale: l’uva viene scaricata, il graspo tolto (verrà riciclato: un altro passaggio che rende sostenibile la produzione), i chicchi selezionati da una macchina che valuta colore, dimensione e spessore della buccia. Mosto e bucce rimarranno a fermentare poco più di una settimana nello stesso tank, salvo poi essere definitivamente divisi nella fase della svinatura.
Tutto intorno, uno scenario molto familiare: dall’esterno, attraverso le finestre della cantina, si vedono i resti di una tavola apparecchiata – è la “mensa” improvvisata per chi lavora lì – e sulla tovaglia cerata a fiori spiccano le bottiglie di vino rosso. Touché. All’esterno lo scenario è condito dall’odore dolciastro del succo d’uva che inebria l’aria pungente di ottobre e dal borbottare, in sottofondo, dei trattori: a Campolungo la raccolta non si ferma fino alle cinque del pomeriggio. «Il processo di trasformazione è vissuto con partecipazione ed entusiasmo: rappresenta la trasformazione dell’uva in vino richiamando una ciclicità che è propria della natura».
Una volta avvenuta questa prima catarsi, il vino avrà bisogno di tempo per “riposare” e quindi lentamente maturare – inizialmente conservato in grandi vasche in acciaio, con la temperatura meticolosamente tenuta sotto controllo dal personale, e poi trasferito nelle botti di legno per l’importante fase dell’affinamento, quella che i francesi definiscono élévage, termine che dà l’idea dell’elevarsi del vino verso più alti e ambiziosi traguardi.
Testo Marta CasadeiI
Foto Fabrizio Vatieri